Il 14 marzo 2016
la mia vita è cambiata, per sempre. Non ero abituata a pensare a cose serie,
serie sul serio, come la vita e la morte, e quindi impegnavo le mie preziose energie
emotive stressandomi su questioni vitali quali l’oscillare continuo del mio
peso, l’incapacità di trarre godimento dal mio lavoro, la frustrazione nel
vedere la mia bambina lottare sugli sci e non arrivare tra i primi 5 in una
gara, il tempo che implacabile scolpisce rughe antiestetiche sulla mia fronte,
cose così insomma.
Poi finalmente
una mattina vado a fare un check-up medico. Mentre, come spesso accade, la mia
attenzione si concentra sul problema sbagliato: superare il prelievo del sangue
senza far la figura di merda di quella che sviene, ecco che il destino mischia
le carte e tira fuori dal cilindro una bella diagnosi di sospetto tumore al
seno. E improvvisa affiora l’eventualità di perdere tutto quello che fino ad
ora era scontato. Non la vita, quella è tanta roba, no, parlo di cose anche piccole,
come la possibilità riuscire a gustare una brioche calda da Marchesi, guardare
in alto mentre cammini per Milano e accorgerti di un giardino su un terrazzo,
la temperatura che cambia quando passi dall'ombra al sole, perché arriva la
primavera e il sole inizia a non essere più solo una questione di luce, le
facce che fa tua figlia alla mattina quando la svegli, e lei con una manina ti
fa segno di smammare, e lasciarla in pace.
Questi attimi di
meravigliosa banalità che ti erano sfuggiti, quando eri sano.
Strano come la
malattia ti assegni uno status diverso, che sovrascrive qualsiasi altro ruolo e
caratteristica sociale. E’ un gene dominante, che cancella gli altri. Io non
sono più tanto una mamma, la compagna rompipalle di Carlo, una donna che
lavora, un’esperta di marketing, una milanese imbruttita, sono una malata, con
sospetto tumore. Ma diciamocela tutta, sospetta malata di cancro. Di tumore
forse si può guarire, di cancro in genere si muore.
Questo stigma, il
sospetto tumore, te lo porti addosso come una stella di Davide cucita sul
cappotto, ti sembra che la vedano tutti e che, anche se uno non lo sa, lo vede che
sei malato, e quindi ti tratta diversamente, con un misto di pietà, finta
preoccupazione e un pelo di paura, come se il cancro fosse contagioso. Non è
vero , a loro di base non frega, né se
lo sanno né se non lo sanno, ma tu invece, tu sai e ti sembra proprio che tutti
ti discriminino per via di questa nocciolina di materiale avariato nel tuo seno
destro.
Sono giorni
difficili, questi dell’attesa della diagnosi. Certo sono sempre stata piuttosto
volubile nell'umore, ma qui si tratta di passare dal baratro della disperazione
a una placida calma zen, più volte al giorno. L’oscillazione ha un’ampiezza
temporale di circa un’ora, il che mi permette di godere appieno di nove cicli
di disperazione e altrettanti di filosofico distacco, se togliamo le sei ore di
incubi notturni.
Durante la disperazione
la mente velocissima elabora complesse trame che ineluttabilmente culminano con
la mia dipartita passando per letti d’ospedale, perdite di capelli a ciocche,
occhi lucidi di Carlo, tentativi di non rovinare per sempre la personalità di
mia figlia con un trauma come la perdita di sua madre, ultime parole, frasi
sagge, il nulla eterno. C’è anche il senso di colpa, ma quello è un po’ come il
prezzemolo, si infila ovunque.
Per contrasto, e
penso sia semplicemente una reazione chimica di autoconservazione, il mio lato
buddista mi ricorda che la vita è una fase temporanea nell'ordine cosmico,
questo vale per tutti, e ognuno affronta un destino proprio, per cui la data
della propria morte non è un enorme evento, tutto sommato, rispetto all'eternità.
La vita ci scorre attraverso, e sta a noi goderne il più possibile mentre
ancora abbiamo qualche gettone per la giostra. Allora provo a non cambiare
nulla, nella mia vita, ma a godermela un po’ più di prima, notando particolari
che, appunto ignoravo finora. E ci riesco, per poco, ma è difficile, e sono piuttosto
instabile, come sappiamo, quindi il baratro è sempre lì dietro l’angolo. Allora
provo a fare un passo alla volta, affrontare un minuto dietro l ‘altro, senza
correre avanti. E gli attimi si allungano all'infinito in un’attesa che hai il
sospetto non finirà presto.
Sono passati 8
giorni dalla mia biopsia, e ancora non mi dicono nulla. Credo sia un enorme segno
di maleducazione lasciare un essere umano appeso tra la vita e la morte. Ma è
ovvio che per gli impiegati dell’universo ospedaliero io rappresento un’attività
come tante, un po’ come quando io devo mandare il calendario di marketing ai
brand manager e mi rompo di aggiornarlo, allora lo mando il giorno dopo.
Mi fa strano
pensare che esiste qualcuno col calendario della mia vita li nella lista delle
cose da fare, e me lo immagino mentre pensa: “o che palle, adesso mi faccio un
caffè, poi libero la vescica, e poi vedo un po’ se chiamare questa e dirle che
sta per morire. Magari prima mi mangio una sfogliatella”.
Ho solo una
certezza, in questo momento di destini incerti e fluidità umorale. Se riesco a
sopravvivere, almeno per il momento, diventerò una persona migliore. Già ho
iniziato, in effetti. Non mi sono mai piaciuta tanto come in questi giorni, sono
gentile con mia figlia, consolo Carlo per la mia probabile prematura dipartita,
rincuoro i miei genitori, mangio sano, fumo un po’ di più ma butto sempre i
mozziconi nel cestino, quasi più nessuno mi irrita, trovo ogni cosa degna di
essere compiuta, con amore ed attenzione ma senza dramma. Vedo e accetto i
problemi degli altri, ma con lo snobismo tipico di chi pensa che siano tutte
cazzate, concedendo tuttavia benevolenza per i piccoli drammi quotidiani a chi
non gode dell’illuminazione di una (sospetta) malattia mortale .
Chissà come andrà
a finire, magari tra qualche centinaio di migliaio di attimi lo saprò.