giovedì, gennaio 26, 2023

Control Free-ak

 È quasi impossibile avere pieno controllo sugli eventi della propria vita, figuriamoci su quella di altri.

Eppure. Ho realizzato, tra il km 6 e il km 7 della mia corsa di oggi, che esiste un motivo semplice e quasi ovvio per la mia ansia e per quel senso di caduta nel baratro, che ogni tanto provo.

Ci arrivo.

In tanti anni di vita, pure troppi, ho imparato a gestire i miei fallimenti, le mie cadute, le mie debolezze. Non del tutto, ma ci convivo.

Quello a cui non ero preparata è questa sommatoria matematica elevata alla potenza ennesima delle proprie paranoie e sensazioni, quando si tratta delle difficoltà, delle angosce e delle insicurezze di una figlia adolescente.

Tu vorresti assorbire e detonare tutto cio’ che la fa star male, stendere una rete di protezione per parare le sue cadute, ancora meglio, sostituirti a lei nei momenti di difficoltà. Perché sentire direttamente il male sarebbe più facile e tollerabile che non vederlo scorrere sotto la sua pelle senza poterlo arrestare.

E questo, ovviamente, non é possibile. E non sarebbe giusto. Una madre dovrebbe permettere alla propria figlia di sperimentare il bene così come il male, fornire direzione e strumenti, e lasciare che le esperienze arrivino in modo naturale a forgiarne il carattere.

Razionalmente l’abbiamo capito. Adesso però come la risolviamo la cosa, emotivamente?

 

martedì, marzo 22, 2016

Il giorno in cui la mia vita cambio' per sempre.

Il 14 marzo 2016 la mia vita è cambiata, per sempre. Non ero abituata a pensare a cose serie, serie sul serio, come la vita e la morte, e quindi impegnavo le mie preziose energie emotive stressandomi su questioni vitali quali l’oscillare continuo del mio peso, l’incapacità di trarre godimento dal mio lavoro, la frustrazione nel vedere la mia bambina lottare sugli sci e non arrivare tra i primi 5 in una gara, il tempo che implacabile scolpisce rughe antiestetiche sulla mia fronte, cose così insomma.

Poi finalmente una mattina vado a fare un check-up medico. Mentre, come spesso accade, la mia attenzione si concentra sul problema sbagliato: superare il prelievo del sangue senza far la figura di merda di quella che sviene, ecco che il destino mischia le carte e tira fuori dal cilindro una bella diagnosi di sospetto tumore al seno. E improvvisa affiora l’eventualità di perdere tutto quello che fino ad ora era scontato. Non la vita, quella è tanta roba, no, parlo di cose anche piccole, come la possibilità riuscire a gustare una brioche calda da Marchesi, guardare in alto mentre cammini per Milano e accorgerti di un giardino su un terrazzo, la temperatura che cambia quando passi dall'ombra al sole, perché arriva la primavera e il sole inizia a non essere più solo una questione di luce, le facce che fa tua figlia alla mattina quando la svegli, e lei con una manina ti fa segno di smammare, e lasciarla in pace.

Questi attimi di meravigliosa banalità che ti erano sfuggiti, quando eri sano.

Strano come la malattia ti assegni uno status diverso, che sovrascrive qualsiasi altro ruolo e caratteristica sociale. E’ un gene dominante, che cancella gli altri. Io non sono più tanto una mamma, la compagna rompipalle di Carlo, una donna che lavora, un’esperta di marketing, una milanese imbruttita, sono una malata, con sospetto tumore. Ma diciamocela tutta, sospetta malata di cancro. Di tumore forse si può guarire, di cancro in genere si muore.
Questo stigma, il sospetto tumore, te lo porti addosso come una stella di Davide cucita sul cappotto, ti sembra che la vedano tutti e che, anche se uno non lo sa, lo vede che sei malato, e quindi ti tratta diversamente, con un misto di pietà, finta preoccupazione e un pelo di paura, come se il cancro fosse contagioso. Non è vero , a loro di base non frega,  né se lo sanno né se non lo sanno, ma tu invece, tu sai e ti sembra proprio che tutti ti discriminino per via di questa nocciolina di materiale avariato nel tuo seno destro.

Sono giorni difficili, questi dell’attesa della diagnosi. Certo sono sempre stata piuttosto volubile nell'umore, ma qui si tratta di passare dal baratro della disperazione a una placida calma zen, più volte al giorno. L’oscillazione ha un’ampiezza temporale di circa un’ora, il che mi permette di godere appieno di nove cicli di disperazione e altrettanti di filosofico distacco, se togliamo le sei ore di incubi notturni.

Durante la disperazione la mente velocissima elabora complesse trame che ineluttabilmente culminano con la mia dipartita passando per letti d’ospedale, perdite di capelli a ciocche, occhi lucidi di Carlo, tentativi di non rovinare per sempre la personalità di mia figlia con un trauma come la perdita di sua madre, ultime parole, frasi sagge, il nulla eterno. C’è anche il senso di colpa, ma quello è un po’ come il prezzemolo, si infila ovunque.

Per contrasto, e penso sia semplicemente una reazione chimica di autoconservazione, il mio lato buddista mi ricorda che la vita è una fase temporanea nell'ordine cosmico, questo vale per tutti, e ognuno affronta un destino proprio, per cui la data della propria morte non è un enorme evento, tutto sommato, rispetto all'eternità. La vita ci scorre attraverso, e sta a noi goderne il più possibile mentre ancora abbiamo qualche gettone per la giostra. Allora provo a non cambiare nulla, nella mia vita, ma a godermela un po’ più di prima, notando particolari che, appunto ignoravo finora. E ci riesco, per poco, ma è difficile, e sono piuttosto instabile, come sappiamo, quindi il baratro è sempre lì dietro l’angolo. Allora provo a fare un passo alla volta, affrontare un minuto dietro l ‘altro, senza correre avanti. E gli attimi si allungano all'infinito in un’attesa che hai il sospetto non finirà presto.

Sono passati 8 giorni dalla mia biopsia, e ancora non mi dicono nulla. Credo sia un enorme segno di maleducazione lasciare un essere umano appeso tra la vita e la morte. Ma è ovvio che per gli impiegati dell’universo ospedaliero io rappresento un’attività come tante, un po’ come quando io devo mandare il calendario di marketing ai brand manager e mi rompo di aggiornarlo, allora lo mando il giorno dopo.
Mi fa strano pensare che esiste qualcuno col calendario della mia vita li nella lista delle cose da fare, e me lo immagino mentre pensa: “o che palle, adesso mi faccio un caffè, poi libero la vescica, e poi vedo un po’ se chiamare questa e dirle che sta per morire. Magari prima mi mangio una sfogliatella”.

Ho solo una certezza, in questo momento di destini incerti e fluidità umorale. Se riesco a sopravvivere, almeno per il momento, diventerò una persona migliore. Già ho iniziato, in effetti. Non mi sono mai piaciuta tanto come in questi giorni, sono gentile con mia figlia, consolo Carlo per la mia probabile prematura dipartita, rincuoro i miei genitori, mangio sano, fumo un po’ di più ma butto sempre i mozziconi nel cestino, quasi più nessuno mi irrita, trovo ogni cosa degna di essere compiuta, con amore ed attenzione ma senza dramma. Vedo e accetto i problemi degli altri, ma con lo snobismo tipico di chi pensa che siano tutte cazzate, concedendo tuttavia benevolenza per i piccoli drammi quotidiani a chi non gode dell’illuminazione di una (sospetta) malattia mortale .


Chissà come andrà a finire, magari tra qualche centinaio di migliaio di attimi lo saprò.

domenica, dicembre 22, 2013

Su uno sci solo

L'equilibrio non e' il mio forte. E' cosa nota. Quindi oggi ho deciso di passare i miei "dieci minuti" sciando su uno sci solo. Dopotutto mia figlia ci e' riuscita. Infatti la sua maestra di sci quando mi ha visto su una gamba sola come uno stambecco zoppo ha prontamente avallato l'esercizio assicurandosi che io fossi coperta da assicurazione. Così di fronte a una fila di scettici tigrotti sciatori (alcuni visibilmente scuotevano le testoline nei loro caschetti provvisti di orecchie di peluche) ho iniziato l'esperimento.  "tranquilla, e' semplice, devi solo trovare il tuo centro".  Semplice? Lo cerco da 43 anni, dici che era proprio qui su questa pista, sotto il mio scarpone sinistro? Improbabile. Certo in dieci minuti l'ho solo intravisto, intuito. E' stato un barlume di equilibrio, altalenante e instabile. Tutto regolare. Un gran mal di culo pero'.

venerdì, dicembre 20, 2013

Da Peck con gli occhiali

Ieri ho conosciuto Chiara Gamberale. Professione: scrittrice.
Di lei avevo letto un paio di libri, che mi erano piaciuti, abbastanza, ma come a volte accade la piena personalità dello scrittore non si trasferisce paro paro nelle righe che scrive. Lei è persona carismatica, complicata e articolata, solare e loquace. Un persona che mi piacerebbe frequentare. Insomma io sono andata a sentire il suo intervento per un unico motivo: volevo vedere in faccia qualcuno che era riuscito a fare per lavoro quello che da una vita io faccio per necessità: scrivere.
E mi è nato un senso di infinita ammirazione. Poi è arrivata con questo suo nuovo libro, che invita a fare una cosa davvero sfiziosa: per dieci minuti al giorno, per un mese, provare qualcosa che non si è mai fatto prima. Per mettersi alla prova, per distogliersi dalle solite ossessioni.
Così ho deciso. lo faccio. E oggi ho iniziato. Allora.
GIORNO 1:  Da Peck con gli occhiali.
Porto (dovrei portare) gli occhiali da vista dall'età di sei anni. Il problema è che con gi occhiali sembro una maestra stronza. O una nerd bulimica. A seconda della montatura. Quindi non li metto mai, quando sono per strada, con un certo impatto sulla mia vita sociale, perchè non potendo identificare le persone, non le saluto.
Oggi per dieci minuti mi sono tenuta gli occhiali mentre camminvao per strada, senza mai toglierli, e ho visto cose, cose che non avevo mai visto: prezzi delle scarpe nelle vetrine, cacche di cane sui marciapiedi, locandine di spettacoli di tango, il numero dell'autobus. E li ho tenuti fino dentro a Peck, con il rischio concreto di essere vista da gente nota. E di vederla a mia volta.
Inquietante. Interessante. Meno male che son passati in fretta, i dieci minuti.




giovedì, novembre 29, 2012

Magro Natale


Ed eccoci alla fatidica dieta prenalatizia al termine della quale, puntualmente, arrivo affamata irritabile mediamente smilza ed estremamente piatta.
Infatti con mio sommo cruccio quando ingrasso, ingrasso sul culo, quando dimagrisco, dimagrisco sulle tette.
Perché ostinarsi a fare la dieta? Non lo so. Non ha senso.
Intanto nessuno nella storia si è mai accorto di un mio dimagrimento. Nessuno. Forse perché dura poco.
Infatti è nota la regola per cui ci si mettono tre mesi a perdere 5 chili e una settimana e recuperarli.
Nel periodo di affamamento poi la famiglia ti odia perché ti disinteressi completamente alle loro necessità mangerecce, ovvero smetti di preparare i pasti e loro finiscono per cibarsi di patatine, wurstel e maionese in tubetti. E mentre si rimpinzano si lamentano, generando intense ondate di risentimento.
Eppure mi metto a dieta. E so perché.
Tutti gli sforzi, le rinunce, la sofferenza trovano la loro ragion d’essere in quell’unico fatidico momento in cui salendo sulla bilancia (dopo essermi tolta tutto il toglibile inclusa biancheria intima, forcine per capelli, capsule dei denti), il mio peso come appare sul display è inferiore a quello della settimana prima. Salto del pasto. Calo del peso. E’ una specie di sfida olimpica. O di malattia mentale.

venerdì, novembre 23, 2012

Il gene mancante

Cara Maghita, hai solo 6 anni e ancora non sai. Sei una bambina sveglia, socievole, solare, un po’ capricciosa, a tratti, ma ci sta, sei femmina. Mi ripeti spesso, soprattutto mentre sei chiusa in bagno, che mi vuoi bene, e me lo dimostri frequentemente saltandomi sullo stomaco con le ginocchia, così in segno di affetto.

Ancora non sai che un giorno proverai un rancore implicito per la tua mamma.
Io ci provo, ad essere una brava mamma, ma, amore, non ci sono portata. Sono geneticamente inadatta.
Quasi ogni momento con te commetto degli sbagli, e io so, per esserci passata con la mia, di mamma, che i miei sbagli, giorno dopo giorno, anno dopo anno, si accumuleranno come guano su una spiaggia, e a poco a poco il tuo sentimento di amore diventerà tiepido affetto, blando fastidio, chiara insofferenza. Per finire appunto, in insistente rancore.  
La verità  è che, al meglio delle mie possibilità, ottimisticamente riuscirò a non rovinarti. Ma di base non ti farò del gran bene. Le mamme col gene giusto sono sorridenti, tranquille, ti portano a scuola con la manina cantando canzoncine inventate sul momento, lasciano correre. Corrono pure loro, hanno scarpe da ginnastica, sono in forma, presenti, dedicate.
Io, amore mio, sono un disastro. Non ho pazienza, sono intransigente, urlo per niente, sono poco dolce ma molto nervotica, ti trascino a scuola a passo accelerato sui miei tacchi alti, pronta ad affrontare l’ennesima insoddisfacente giornata di lavoro.
Ti devo quasi inseguire prima dell’entrata per darti un bacio al volo, tu sei già scappata via e ti affretti su per le scale con quello zaino rosa enorme sulle spalle, ti vedo scomparire in una folla di bimbi tutti più alti di te, quasi corri per non arrivare in ritardo. Questa è la foto di te che voglio scattare per ricordare com’eri, pesciolino innocente e tenace, quando ancora mi volevi bene.

venerdì, novembre 25, 2011

Selezione innaturale

Una volta si emigrava per disperazione, adesso è trendy. Se decidi di rimanere in Italia o sei sfigato o sei provinciale. Se tuo figlio a 5 anni non è bilingue inglese e non mastica almeno un po' di mandarino (il cinese, non l'agrume) non ha futuro.
Condizionata mio malgrado dal terrorismo psicologico delle mamme mie conoscenti mi informo per mandare la mia bimba alla scuola internazionale.
Così scopro che per entrare in prima elementare ci vuole un test di ammissione della linga inglese e della matematica. Ma se già sapesse l'inglese e la matematica a 5 anni secondo voi spenderei 18 mila cucuzze all'anno per mandarla alla vostra scuola?
Credo di aver rivalutato la cara vecchia (e spesso diroccata) scuola statale dove invece dei figli dei calciatori ci sono i figli degli extracomunitari, così magari impara anche un po' di indiano, e gratis. Si sa mai.